Un tipo abbronzato che scende da una Porsche con una t-shirt con la vistosa scritta “Pusher”: un vero vincente dei tempi moderni. L’emblema del successo all’età dei cyber-primitivi del terzo millennio: questo lo spunto di vita reale che costituisce la scintilla per “la Tipa di Rockit” il primo singolo di Borghese, la band arrivata al suo secondo lavoro in studio “In caso di pioggia la rivoluzione si farà al coperto”. Questo soggetto diventa a sua insaputa il simbolo dell’ostentazione, parodia e metafora di certi rapper tutti catene d’oro e macchine rombanti, naturale contraltare del musicista “intellettualoide” che invece si bea quasi nell’arrivare a pochi, facendosi un vanto di quella che in realtà è la sua sconfitta: il non poter campare della sua arte. Un musicista intellettuale che si auto legittima con pose da rockstar sui social ma che in realtà deve fare un altro lavoro per permettersi la passione della sua vita.
Un musicista che apparentemente ha un’idea su tutto ma che non si espone mai per paura di perdere posizione in quella nicchia che si è grattato con le unghie.
Una generazione di ragazzi in perenne posa da disillusi senza avere avuto mai la possibilità di illudersi, condannata all’austerità anche dei pensieri; una generazione che non capisce che giudicare la propria vita con i parametri dei proprio genitori conduce solo all’infelicità; una generazione che ignora che “la vita è solo la vita, non serve drammatizzarla, tanto nessuno ne uscirà vivo”.
ll secondo album di Borghese, quello che accompagna il passaggio da cantautore a band di tutto il gruppo di lavoro che aveva collaborato alla stesura del primo disco. Quello che segna la nascita in Italia di una vera band elettropop. Il disco che leva la maschera al cantautore de “L’educazione delle rockstar” e ne moltiplica per quattro l’identità svelata. Un disco corrosivo e generazionale, intellettuale e irriverente al tempo stesso. Ma anche il primo esperimento di disco “social” come lo definisce Angelo Violante, l’autore di tutti i testi e leader della band: «per più di un anno ho appuntato su un quaderno frasi significative che sentivo dire dalla gente intorno a me, ho infatti raccolto meticolosamente un fiume di pensieri, non miei bensì di altri. Quindi ho scelto a tavolino il tema delle canzoni e ho mescolato tutto, prendendo da quella sorta di libreria costruita da centinaia di frasi i tasselli per creare undici puzzle, ovvero le undici tracce finite alla fine sul disco; ho agito con un cut-up alla maniera degli autori della beat generation e ho dato un senso, accostandole, a frasi estrapolate e rubate da ambiti diversissimi. Ho scritto un disco che non ho scritto io, un disco di cui non sono l’autore ma il regista, un disco che mi appartiene ma di cui una quota appartiene a voi, magari, a vostra insaputa. Un disco in cui si nobilita il concetto di plagio su cui puoi “taggarti se riconosci qualcosa che ti appartiene”. »
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